martedì 9 agosto 2016

... Around Bonfire - Bloodborne Lore (Part IV) La Notte Rossa

Non avevo compreso a pieno la sua grandezza, il suo disegno, la sua pericolosità. Ero semplicemente terrorizzato, consapevole dell’inferno che Micolash aveva scatenato sulla nostra città. Forse questo grande terrore derivava proprio dalla consapevolezza, la consapevolezza di far parte di quel piano diabolico. Non escludo le mie colpe, la mia sfrenata ambizione, il mio immondo desiderio di possedere la Verità, la conoscenza del Cosmo, il potere di quegli Esseri, ma forse proprio quel briciolo di umanità che era nascosto in mezzo a tutta quella bramosia, improvvisamente come un’esplosione stellare mi ha aperto gli occhi su quel che stavamo facendo, qualcosa di terribilmente sbagliato e contronatura. Avevamo agito solo nel nostro interesse, abbiamo lasciato indietro coloro che veramente amavamo, io ho abbandonato il mio amore, la gioia che avevo avuto la fortuna di incontrare; ho trascurato la mia vita, recluso nella mia officina a costruire armi efficaci per la Chiesa, allenando i nuovi cacciatori nel tentativo di arginare la piaga. Nulla di più inutile, a mio avviso. Con la consapevolezza di adesso, solo uno in mezzo a loro può essere considerato degno di questo titolo… ma il suo destino non sarà cacciare esclusivamente le belve. No, non sarà questo il suo destino, ma qualcosa di molto più profondo, più oscuro, e più controverso che mai nessuna scienza potrà spiegare, nessuna magia, nessuna tra le arti dei mortali. Ma adesso sono qui, su questa malridotta sedia a rotelle, a raccontare a te mio povero costrutto, mia povera automa che tanto ricordi il mio lontano amore, la storia di quel che accadde negli ultimi istanti prima che la Luna Rossa troneggiasse sulle nostre teste e l’ordine venisse sovvertito.
Gherman nell'officina del sogno
Un tempo io fui Gherman, uno tra i più grandi cacciatori della Chiesa della Cura, capo dell’Officina, ex allievo della scuola di Byrgenwerth e… amante della mia giovane allieva, Lady Maria. Il mio compito era fornire armi alla Chiesa, nuovi Cacciatori e al più possibile informazioni riguardo alle scoperte condotte nei sotterranei Ptumeriani da parte di Ludwig, il capo delle lame sacre, antico ordine di cavalieri ormai ridotto all’inutile rappresentanza della nobiltà Yharnamita in cerca di sempre più privilegi da parte della Chiesa della Cura. La mia vita, malgrado fosse sempre all’insegna della fatica e della ricerca, non era particolarmente ostica né mi impediva di godere delle piccole gioie insieme alla mia compagna. Tuttavia mai il mio dovere veniva meno nei confronti della missione che perseguivo con tanta insistenza, e per quanto le mie ore passate nei bui anfratti di quelle tombe viventi piano piano scavassero all’interno della mia anima un abisso oscuro e insondabile, non mostro disgusto nel dire che tutto ciò per me era alquanto affascinante, provando adorazione nell’inoltrarmi nei malati e contorti anfratti delle tombe Pthumeriane. Mai scorderò la prima volta che vi misi piede, la paura ed il disgusto davanti a quelle creature ormai svilite di ogni concetto di umano e terreno, miseri automi putrescenti guidati dalla volontà di creature oscene, incubi ancestrali la cui aura malefica intasava ogni singola ricezione sensoriale riguardo la realtà. Quando per la prima volta vidi Ebrietas quasi l’estasi mi colse, un’assurda attrazione ai limiti dell’impulso carnale e della turba mentale, un groviglio di impulsi nervosi, fisici e spirituali che solo una visione così orribilmente estatica può indurre. Davanti a lei subito ci mettemmo in ginocchio, benedicendo quel groviglio innaturale di arti scomposti - o tentacoli, nessuno riuscì mai a capirlo – pregni di un liquido vischioso dall’odore acre, quasi ricordando quello dei molluschi spiaggiati che con il tempo si decompongono senza che nessuno possa nutrirsi. Dopo attimi di tremenda religiosità contornata da un mefitico silenzio privo di pace, mastro Willem si volse verso di noi intimando di lasciare quel luogo sacro e tornare in superficie. Laurence si oppose, rompendo il sacro silenzio con forza, affermando quanto potente sarebbe stato studiare quella creatura per scoprire altro sull’Ascensione. A quella parola il cuore di molti si accese dell’assurda arroganza della potenza, ed anche io, il più dubbioso degli scolari di quel tempo eppure colui che più di tutti aveva sperimentato l’estasi della visione di un Grande Essere – cosa che in seguito mi fu detto essere una predisposizione naturale all’Intuizione del Cosmo – mi infiammai a quell’allettante proposta di elevazione. Quello fu l’inizio della nascita della Chiesa della Cura, e Laurence ne fu felice quando decisi pure io di entrarne a far parte. Da quel momento iniziò la mia vita nell’officina della Chiesa; grazie alla conoscenza di un antico metallo ritrovato nelle catacombe Pthumeriane, chiamato Siderite, riuscì a produrre un numero, seppur limitato, di armi dai poteri devastanti, capaci non solo di fermare quella che in seguito sarebbe stata la Piaga Delle Belve ma anche, e forse soprattutto, chi si opponeva apertamente alle mire della Chiesa. In questo modo nacque l’ordine degli Assassini capeggiato da Brador il quale, nell’ombra, cacciava uomini che in fondo avevano capito cosa in realtà la Chiesa stava cercando di fare; sperimentare sulla popolazione un modo per raggiungere l’Ascensione. In questo modo iniziò il periodo più oscuro della mi vita, ed io ne ero entusiasta, cieco al tempo a qualsiasi forma compassione umana, anche se rispetto a molti altri, non mi aveva abbandonata definitivamente. La mia compagna mi ricordava quel che significasse essere umani, con tutti i pro ed i contro, la debolezza ma anche la forza che può scaturire dell’unione sincera tra due persone. Ed anche adesso, malgrado sia bloccato in questa prigione che si beffa della mia vita, quando quell’abominio mi concede di sognare, ricordo sempre la mia dolce Maria, quel frammento di umanità ormai troppo lontano per essere raggiunto. Sognare, che parola così fuori luogo qui, meglio dire incubo ma, se lo fosse, chi vi entrasse se ne accorgerebbe subito. No, la creatura è furba in questo, non si farebbe mai accorgere di una cosa del genere, è attenta ai minimi dettagli. Ma perché non parlare di lui, o di quel che penso aver capito di quell’essere - per quanto il limite tra coscienza e follia sia molto sottile quando ci si addentra in un arcano così profondo? Quando aprimmo i calici Pthumeriani qualcosa, lesto come il vento, vi uscì immediatamente, ma non sapemmo mai cosa fosse: puzzava di antico e immondo, ed era insistente l’idea in noi di aver commesso un errore imperdonabile. Ma subito non ci pensammo, presi dalle nostre vanagloriose missioni. Poi quando venne il momento lei si palesò: quando l’orrore toccò la nostra terra con arti oscenamente protesi verso la luna e i gorgoglii senza senso di folli creature riecheggiò nel silenzio delle strade del Villaggio Invisibile ormai prive di vita mentre, come unici spettatori, rimanevano immobili i fossili degli abitanti ormai fusi nelle pareti dei gloriosi edifici che tanto avevano costruito grazie all’ausilio della forza del Sangue, lei mosse il suo sguardo verso l’avanzata di Mergo su questo piano, richiamato dal terribile rituale di Micolash per dare nuova vita all’Orfano di Kos – che prese il nome di Rinato – attratta dall’energia di quell’evento, così simile a quel che avvenne in ere ancestrali, quando l’uomo ancora non bramava il potere ma lo temeva e riveriva. Così avvenne che la sua ascesa destabilizzò così tanto il tessuto della realtà che il tempo stesso su Yharnam fu completamente distorto e la notte divenne eterna, mentre la luna, ora tinta di rosso sanguigno, si beffava della stupidità dell’uomo che tanto desiderava, e continua a desiderare il potere. Ma l’orrore venne subito dopo: la gente iniziava ad trasformarsi in belve senza assumere il Sangue Curativo, e chi resisteva, in particolare le donne, venivano prese da una turba mentale che le faceva sperimentare estasi e follia, e alcune… alcune rimanevano incinte senza apparente motivo! Il disgusto mi pervase passando tra quei derelitti, smembrando quei poveri innocenti ormai presi dal delirio e dalla brutalità della Piaga, e noi cacciatori stavamo perdendo le speranze verso l’orrore che, anche noi, avevamo contribuito a portare su questa terra. La nostra missione perse di significato, molti cercarono di resistere, altri fuggirono, inutilmente, dalla città; nessuno infatti poteva più uscire, l’inferno era sceso su questa terra, come ai tempi delle fiamme divoratrici di Old Yharnam. Finché un giorno tentammo l’impossibile: utilizzare quel Simile del Cosmo che Mastro Willem aveva creato - credo si chiamasse Rom - per tentare di fermare il potere di quella luna; tramite alcune ricerche che avevamo condotto tempo fa nei labirinti, scoprimmo, oltre alla neutralità di certi Grandi Esseri, anche l’avversione di alcuni di loro nel farsi comandare da altri, specialmente quando i piani di esistenza si sovrapponevano, come in questo caso. Willem era ancora vivo, o sufficientemente sano di mente per poterci aiutare allora, e il suo fu un sacrificio immenso: per poter comunicare e ordinare ad un Simile del Cosmo – ossia un Grande Essere minore – di sottostare alla volontà di un inferiore, bisogna sacrificare la propria sanità mentale, accumulando il più alto grado di Intuizione del Cosmo possibile per un uomo. Ma prima di andare incontro al proprio destino, non scorderò mai le parole del mio ex Maestro mentre, con mano tremante, avanzava verso di me quell’immondo oggetto di conoscenza arcana: <<Usa i cordoni dell’occhio per avvicinarti alla creatura e uccidila così da spezzare il giogo su di noi>>. Così mi fu tutto chiaro nel tumultuoso marasma di emozioni che mi turbinavano dentro, e un’illusoria speranza mi pervase, speranza che non fu destinata a durare a lungo. Da lì a poco scoprimmo che, malgrado gli effetti della luna si fossero attenuati e la gente non continuasse più a trasformarsi, adesso coloro che destavano più preoccupazione erano i cacciatori stessi: i loro occhi iniziarono ad iniettarsi di sangue, la loro violenza aumentò a dismisura e, anche se non dimostravano evidenti sintomi di trasformazione, la loro mente era ormai contorta come quella di una bestia. Fu così che morì la mia amata, nei pressi della nostra officina mentre stavamo preparando il rituale per contrastare il Grande Essere della Luna. Un’orda di quei cacciatori ci prese alla sprovvista dopo aver recuperato un altro di quel cordone maligno; la vidi cadere a terra, con quell’oggetto in mano, trapassata da una sciabola, mentre mi guardava, i suoi occhi fissi su di me, i miei sui suoi che a poco a poco perdevano di lucentezza per fare posto ad un vitreo sguardo senz’anima.
Lady Maria
Li sterminai tutti, facendoli a pezzi, rendendoli irriconoscibili persino ai folli che non avrebbero mai visto niente di terreno in quel ammasso di carne senza criterio, nemmeno la più vaga idea di umano. In questi momenti dovrebbero essere versate lacrime amare e talmente pesanti da scavare baratri di oscurità nel cuore di un uomo; ebbene non fu così, non vi fu spazio nemmeno per una goccia di sudore d’innanzi alla carneficina della rabbia, del dolore e della tenebra che, all’interno della mia anima, si faceva largo con la subdola e concreta idea della disperazione. Non potevo lontanamente immaginare quanto sarebbe stata enorme questa disperazione in seguito. Dopo averla sepolta e aver scolpito una lapide a sua memoria, stremato dall’orrore che ormai aveva sostituito il sangue pulsante nelle mie vene, presi il misterioso oggetto che il maestro mi aveva consegnato prima di perdersi nei recessi della sua mente martoriata, e lo scrutai; sentii freddo, una strana sensazione di viscido e bagnato, l’odore salmastro del mare, un mare buio tuttavia, senza alcun cielo azzurro sopra di esso tale da potergli dare colore. Nelle mie orecchie sentivo il gocciolare di piccoli cristalli d’acqua che trafiggevano in maniera assordante una pozza, tutto intorno a me nessun paesaggio, reale o surreale, solo una penombra inerte, senza forma, silenziosa; un confortante panorama, tranquillo, permeato di pace, la stessa pace della tomba. Credevo fossi morto, perso per sempre, e ne fui felice: potevo godere di quella tranquillità dopo aver visto l’orrore di quei giorni. Tuttavia reputai che tutta quella pace non poteva essere meritata, che per quel che commisi in vita nessun paradiso poteva attendermi. E subito mi accorsi di essere sommerso da un’enorme massa d’acqua, buia, fredda, soffocante, che mi entrava nelle narici, nella gola, dentro l’anima. Ogni anfratto della mia esistenza era ricolmo di quella specie di liquido che ricordava molto quello amniotico, ed inutile era il dimenarmi in quella tomba d’acqua poiché piano piano ogni mio movimento veniva inibito e lo sfinimento prendeva il posto dello sforzo frenetico dell’opporre resistenza a quella forza invisibile ma tangibile. Ben presto il torpore mi assalì, e di nuovo caddi nel sonno, un sonno cosciente tuttavia, come se da lontano rivedessi tutta la mia vita. Ogni istante era precisamente scandito, e dopo l’ultimo, ove rivedevo gli occhi della mia amata e lo scempio che feci dei cadaveri dei nostri aguzzini, mi risvegliai nell’Officina. Ero disteso sul pavimento in legno, tutto era in ordine, anzi, l’ambiente sembrava molto più luminoso come se fosse sorto il sole. Cercai di alzarmi ma non ci riuscii, avevo perso completamente la sensibilità alle gambe, una sensazione orrenda, di inutilità, di pesantezza, un’orribile situazione a cui risposi con un’infantile richiesta d’aiuto, gridando come tutte le mie forze affinché venisse qualcuno in mio soccorso. Ed ecco che giunse l’incubo: vidi la mia amata, il suo sguardo vitreo come l’ultima volta che la lasciai, il colorito delle sue gote di un bianco cadaverico, le sue mani gelide, come uscite direttamente dalla più fredda delle tombe, che mi alzavano con estrema facilità mentre mi riponevano su una sedia a rotelle.
L'Automa, surrogato di Maria
 Era un abominio, un abominio tale da instillare un pianto disperato, il pianto di una perdita ancora più atroce della morte. Sapevo che la Creatura era lì, sapevo che mi stava spiando, divertendosi di come era riuscita a farmi disperare, di come mi aveva ridotto, un paraplegico incapace di combattere. Uscii fuori dall’officina e vidi il cielo illuminato dalla luna; la luce di quell’astro così finto sembrava potente quanto quella del sole, anche se era incapace di diradare la nebbia intorno al luogo in cui mi trovavo. La nebbia avvolgeva qualsiasi cosa che un tempo reputavo familiare: i gradini che portavano a cancello principale, gli spazzi di vegetazione che tanto amavo curare, persino la lapide che avevo eretto per la mia amata, per quanto la sua perfetta riproduzione mi stesse accanto a monito per non smettere di disperarmi. E poi la vidi scendere dall’astro: era lei, la deformità in carne ed ossa – per quanto quel groviglio di pelle viscida e untuosa possa definirsi carne – un osceno groviglio di arti e tentacoli, privo di volto e di qualsiasi naturalezza, l’aborto vivente di ogni concezione di ordine e disciplina, l’antitesi del disgusto verso la vita e l’origine della pazzia. La scrutai, o quantomeno tentai di non abbassare lo sguardo nei confronti di quell’orrore, mentre l’automa che mi stava accanto, incarnazione parodistica di ciò che un tempo amavo, quasi ipnotizzata da quell’essere sembrava comprenderlo. La Creatura era immobile di fronte a noi senza emettere il benché minimo suono, e quasi tutto i paesaggio intorno a noi sembrava muto, privato di qualunque rumore; pure i miei pensieri tacevano, e per quanto mi sforzassi di pensare non ci riuscivo, non tanto per incapacità mia nel formulare una riflessione in quel momento quanto per una forza esterna che mi impediva di emettere qualsiasi ragionamento, una costrizione orrenda che ogni volta vivo quando si presenta innanzi. 
La Presenza della Luna
Gli attimi sembravano infiniti fino a quando la nebbia si alzò e lei svanì, dissolta nell’aria. Sembrava tutto finito, e forse avrei avuto un attimo di tregua se l’essere che mi stava accanto iniziò a parlare con quella voce che ero solito ascoltare nei momenti più intimi e ricolmi di gioia, ma che adesso udivo in un momento ricolmo solo di tragedia e nichilismo.
<<Dovrai addestrare tanti cacciatori che tu stesso porterai nel nostro piano per nutrire il mio signore>>. Dunque era la verità, ormai ero schiavo di un Grande Essere, il mio tentativo di distruggerlo era andato in fumo decretando la fine della mia gente. <<Perché un giorno ne verrà uno che la ucciderà e tu dovrai fermarlo.>>. Queste le sue ultime parole prima di piombare inanimata per terra. Iniziai a tremare, il mio corpo si agitava privato del mio controllo, o di quello che ne rimaneva. Prontamente mi alzai dalla sedia ed iniziai a camminare, ma non sentivo niente, né avevo dato nessun comando al mio corpo. <<Che cosa sei diventato Gherman?>> dissi a me stesso, incredulo a quel che stava avvenendo. Una voce rispose nella mia testa, una voce fuori posto.

<<La Presenza della Luna, senza nome>>. Così caddi nell’ombra.

Omaggio di fine Tetralogia
Custos Cinerium