Non
avevo compreso a pieno la sua grandezza, il suo disegno, la sua
pericolosità. Ero semplicemente terrorizzato, consapevole
dell’inferno che Micolash aveva scatenato sulla nostra città.
Forse questo grande terrore derivava proprio dalla consapevolezza, la
consapevolezza di far parte di quel piano diabolico. Non escludo le
mie colpe, la mia sfrenata ambizione, il mio immondo desiderio di
possedere la Verità, la conoscenza del Cosmo, il potere di quegli
Esseri, ma forse proprio quel briciolo di umanità che era nascosto
in mezzo a tutta quella bramosia, improvvisamente come un’esplosione
stellare mi ha aperto gli occhi su quel che stavamo facendo, qualcosa
di terribilmente sbagliato e contronatura. Avevamo agito solo nel
nostro interesse, abbiamo lasciato indietro coloro che veramente
amavamo, io ho abbandonato il mio amore, la gioia che avevo avuto la
fortuna di incontrare; ho trascurato la mia vita, recluso nella mia
officina a costruire armi efficaci per la Chiesa, allenando i nuovi
cacciatori nel tentativo di arginare la piaga. Nulla di più inutile,
a mio avviso. Con la consapevolezza di adesso, solo uno in mezzo a
loro può essere considerato degno di questo titolo… ma il suo
destino non sarà cacciare esclusivamente le belve. No, non sarà
questo il suo destino, ma qualcosa di molto più profondo, più
oscuro, e più controverso che mai nessuna scienza potrà spiegare,
nessuna magia, nessuna tra le arti dei mortali. Ma adesso sono qui,
su questa malridotta sedia a rotelle, a raccontare a te mio povero
costrutto, mia povera automa che tanto ricordi il mio lontano amore,
la storia di quel che accadde negli ultimi istanti prima che la Luna
Rossa troneggiasse sulle nostre teste e l’ordine venisse
sovvertito.
Gherman nell'officina del sogno |
Un tempo io fui Gherman, uno tra i più grandi cacciatori
della Chiesa della Cura, capo dell’Officina, ex allievo della
scuola di Byrgenwerth e… amante della mia giovane allieva, Lady
Maria. Il mio compito era fornire armi alla Chiesa, nuovi Cacciatori
e al più possibile informazioni riguardo alle scoperte condotte nei
sotterranei Ptumeriani da parte di Ludwig, il capo delle lame sacre,
antico ordine di cavalieri ormai ridotto all’inutile rappresentanza
della nobiltà Yharnamita in cerca di sempre più privilegi da parte
della Chiesa della Cura. La mia vita, malgrado fosse sempre
all’insegna della fatica e della ricerca, non era particolarmente
ostica né mi impediva di godere delle piccole gioie insieme alla mia
compagna. Tuttavia mai il mio dovere veniva meno nei confronti della
missione che perseguivo con tanta insistenza, e per quanto le mie ore
passate nei bui anfratti di quelle tombe viventi piano piano
scavassero all’interno della mia anima un abisso oscuro e
insondabile, non mostro disgusto nel dire che tutto ciò per me era
alquanto affascinante, provando adorazione nell’inoltrarmi nei
malati e contorti anfratti delle tombe Pthumeriane. Mai scorderò la
prima volta che vi misi piede, la paura ed il disgusto davanti a
quelle creature ormai svilite di ogni concetto di umano e terreno,
miseri automi putrescenti guidati dalla volontà di creature oscene,
incubi ancestrali la cui aura malefica intasava ogni singola
ricezione sensoriale riguardo la realtà. Quando per la prima volta
vidi Ebrietas quasi l’estasi mi colse, un’assurda attrazione ai
limiti dell’impulso carnale e della turba mentale, un groviglio di
impulsi nervosi, fisici e spirituali che solo una visione così
orribilmente estatica può indurre. Davanti a lei subito ci mettemmo
in ginocchio, benedicendo quel groviglio innaturale di arti scomposti
- o tentacoli, nessuno riuscì mai a capirlo – pregni di un liquido
vischioso dall’odore acre, quasi ricordando quello dei molluschi
spiaggiati che con il tempo si decompongono senza che nessuno possa
nutrirsi. Dopo attimi di tremenda religiosità contornata da un
mefitico silenzio privo di pace, mastro Willem si volse verso di noi
intimando di lasciare quel luogo sacro e tornare in superficie.
Laurence si oppose, rompendo il sacro silenzio con forza, affermando
quanto potente sarebbe stato studiare quella creatura per scoprire
altro sull’Ascensione. A quella parola il cuore di molti si accese
dell’assurda arroganza della potenza, ed anche io, il più dubbioso
degli scolari di quel tempo eppure colui che più di tutti aveva
sperimentato l’estasi della visione di un Grande Essere – cosa
che in seguito mi fu detto essere una predisposizione naturale
all’Intuizione del Cosmo – mi infiammai a quell’allettante
proposta di elevazione. Quello fu l’inizio della nascita della
Chiesa della Cura, e Laurence ne fu felice quando decisi pure io di
entrarne a far parte. Da quel momento iniziò la mia vita
nell’officina della Chiesa; grazie alla conoscenza di un antico
metallo ritrovato nelle catacombe Pthumeriane, chiamato Siderite,
riuscì a produrre un numero, seppur limitato, di armi dai poteri
devastanti, capaci non solo di fermare quella che in seguito sarebbe
stata la Piaga Delle Belve ma anche, e forse soprattutto, chi si
opponeva apertamente alle mire della Chiesa. In questo modo nacque
l’ordine degli Assassini capeggiato da Brador il quale, nell’ombra,
cacciava uomini che in fondo avevano capito cosa in realtà la Chiesa
stava cercando di fare; sperimentare sulla popolazione un modo per
raggiungere l’Ascensione. In questo modo iniziò il periodo più
oscuro della mi vita, ed io ne ero entusiasta, cieco al tempo a
qualsiasi forma compassione umana, anche se rispetto a molti altri,
non mi aveva abbandonata definitivamente. La mia compagna mi
ricordava quel che significasse essere umani, con tutti i pro ed i
contro, la debolezza ma anche la forza che può scaturire dell’unione
sincera tra due persone. Ed anche adesso, malgrado sia bloccato in
questa prigione che si beffa della mia vita, quando quell’abominio
mi concede di sognare, ricordo sempre la mia dolce Maria, quel
frammento di umanità ormai troppo lontano per essere raggiunto.
Sognare, che parola così fuori luogo qui, meglio dire incubo ma, se
lo fosse, chi vi entrasse se ne accorgerebbe subito. No, la creatura
è furba in questo, non si farebbe mai accorgere di una cosa del
genere, è attenta ai minimi dettagli. Ma perché non parlare di lui,
o di quel che penso aver capito di quell’essere - per quanto il
limite tra coscienza e follia sia molto sottile quando ci si addentra
in un arcano così profondo? Quando aprimmo i calici Pthumeriani
qualcosa, lesto come il vento, vi uscì immediatamente, ma non
sapemmo mai cosa fosse: puzzava di antico e immondo, ed era
insistente l’idea in noi di aver commesso un errore imperdonabile.
Ma subito non ci pensammo, presi dalle nostre vanagloriose missioni.
Poi quando venne il momento lei si palesò: quando l’orrore toccò
la nostra terra con arti oscenamente protesi verso la luna e i
gorgoglii senza senso di folli creature riecheggiò nel silenzio
delle strade del Villaggio Invisibile ormai prive di vita mentre,
come unici spettatori, rimanevano immobili i fossili degli abitanti
ormai fusi nelle pareti dei gloriosi edifici che tanto avevano
costruito grazie all’ausilio della forza del Sangue, lei mosse il
suo sguardo verso l’avanzata di Mergo su questo piano, richiamato
dal terribile rituale di Micolash per dare nuova vita all’Orfano di
Kos – che prese il nome di Rinato – attratta dall’energia di
quell’evento, così simile a quel che avvenne in ere ancestrali,
quando l’uomo ancora non bramava il potere ma lo temeva e riveriva.
Così avvenne che la sua ascesa destabilizzò così tanto il tessuto
della realtà che il tempo stesso su Yharnam fu completamente
distorto e la notte divenne eterna, mentre la luna, ora tinta di
rosso sanguigno, si beffava della stupidità dell’uomo che tanto
desiderava, e continua a desiderare il potere. Ma l’orrore venne
subito dopo: la gente iniziava ad trasformarsi in belve senza
assumere il Sangue Curativo, e chi resisteva, in particolare le
donne, venivano prese da una turba mentale che le faceva sperimentare
estasi e follia, e alcune… alcune rimanevano incinte senza
apparente motivo! Il disgusto mi pervase passando tra quei derelitti,
smembrando quei poveri innocenti ormai presi dal delirio e dalla
brutalità della Piaga, e noi cacciatori stavamo perdendo le speranze
verso l’orrore che, anche noi, avevamo contribuito a portare su
questa terra. La nostra missione perse di significato, molti
cercarono di resistere, altri fuggirono, inutilmente, dalla città;
nessuno infatti poteva più uscire, l’inferno era sceso su questa
terra, come ai tempi delle fiamme divoratrici di Old Yharnam. Finché
un giorno tentammo l’impossibile: utilizzare quel Simile del Cosmo
che Mastro Willem aveva creato - credo si chiamasse Rom - per tentare
di fermare il potere di quella luna; tramite alcune ricerche che
avevamo condotto tempo fa nei labirinti, scoprimmo, oltre alla
neutralità di certi Grandi Esseri, anche l’avversione di alcuni di
loro nel farsi comandare da altri, specialmente quando i piani di
esistenza si sovrapponevano, come in questo caso. Willem era ancora
vivo, o sufficientemente sano di mente per poterci aiutare allora, e
il suo fu un sacrificio immenso: per poter comunicare e ordinare ad
un Simile del Cosmo – ossia un Grande Essere minore – di
sottostare alla volontà di un inferiore, bisogna sacrificare la
propria sanità mentale, accumulando il più alto grado di Intuizione
del Cosmo possibile per un uomo. Ma prima di andare incontro al
proprio destino, non scorderò mai le parole del mio ex Maestro
mentre, con mano tremante, avanzava verso di me quell’immondo
oggetto di conoscenza arcana: <<Usa i cordoni dell’occhio per
avvicinarti alla creatura e uccidila così da spezzare il giogo su di
noi>>. Così mi fu tutto chiaro nel tumultuoso marasma di
emozioni che mi turbinavano dentro, e un’illusoria speranza mi
pervase, speranza che non fu destinata a durare a lungo. Da lì a
poco scoprimmo che, malgrado gli effetti della luna si fossero
attenuati e la gente non continuasse più a trasformarsi, adesso
coloro che destavano più preoccupazione erano i cacciatori stessi: i
loro occhi iniziarono ad iniettarsi di sangue, la loro violenza
aumentò a dismisura e, anche se non dimostravano evidenti sintomi di
trasformazione, la loro mente era ormai contorta come quella di una
bestia. Fu così che morì la mia amata, nei pressi della nostra
officina mentre stavamo preparando il rituale per contrastare il
Grande Essere della Luna. Un’orda di quei cacciatori ci prese alla
sprovvista dopo aver recuperato un altro di quel cordone maligno; la
vidi cadere a terra, con quell’oggetto in mano, trapassata da una
sciabola, mentre mi guardava, i suoi occhi fissi su di me, i miei sui
suoi che a poco a poco perdevano di lucentezza per fare posto ad un
vitreo sguardo senz’anima.
Lady Maria |
Li sterminai tutti, facendoli a pezzi,
rendendoli irriconoscibili persino ai folli che non avrebbero mai
visto niente di terreno in quel ammasso di carne senza criterio,
nemmeno la più vaga idea di umano. In questi momenti dovrebbero
essere versate lacrime amare e talmente pesanti da scavare baratri di
oscurità nel cuore di un uomo; ebbene non fu così, non vi fu spazio
nemmeno per una goccia di sudore d’innanzi alla carneficina della
rabbia, del dolore e della tenebra che, all’interno della mia
anima, si faceva largo con la subdola e concreta idea della
disperazione. Non potevo lontanamente immaginare quanto sarebbe stata
enorme questa disperazione in seguito. Dopo averla sepolta e aver
scolpito una lapide a sua memoria, stremato dall’orrore che ormai
aveva sostituito il sangue pulsante nelle mie vene, presi il
misterioso oggetto che il maestro mi aveva consegnato prima di
perdersi nei recessi della sua mente martoriata, e lo scrutai; sentii
freddo, una strana sensazione di viscido e bagnato, l’odore
salmastro del mare, un mare buio tuttavia, senza alcun cielo azzurro
sopra di esso tale da potergli dare colore. Nelle mie orecchie
sentivo il gocciolare di piccoli cristalli d’acqua che trafiggevano
in maniera assordante una pozza, tutto intorno a me nessun paesaggio,
reale o surreale, solo una penombra inerte, senza forma, silenziosa;
un confortante panorama, tranquillo, permeato di pace, la stessa pace
della tomba. Credevo fossi morto, perso per sempre, e ne fui felice:
potevo godere di quella tranquillità dopo aver visto l’orrore di
quei giorni. Tuttavia reputai che tutta quella pace non poteva essere
meritata, che per quel che commisi in vita nessun paradiso poteva
attendermi. E subito mi accorsi di essere sommerso da un’enorme
massa d’acqua, buia, fredda, soffocante, che mi entrava nelle
narici, nella gola, dentro l’anima. Ogni anfratto della mia
esistenza era ricolmo di quella specie di liquido che ricordava molto
quello amniotico, ed inutile era il dimenarmi in quella tomba d’acqua
poiché piano piano ogni mio movimento veniva inibito e lo sfinimento
prendeva il posto dello sforzo frenetico dell’opporre resistenza a
quella forza invisibile ma tangibile. Ben presto il torpore mi
assalì, e di nuovo caddi nel sonno, un sonno cosciente tuttavia,
come se da lontano rivedessi tutta la mia vita. Ogni istante era
precisamente scandito, e dopo l’ultimo, ove rivedevo gli occhi
della mia amata e lo scempio che feci dei cadaveri dei nostri
aguzzini, mi risvegliai nell’Officina. Ero disteso sul pavimento in
legno, tutto era in ordine, anzi, l’ambiente sembrava molto più
luminoso come se fosse sorto il sole. Cercai di alzarmi ma non ci
riuscii, avevo perso completamente la sensibilità alle gambe, una
sensazione orrenda, di inutilità, di pesantezza, un’orribile
situazione a cui risposi con un’infantile richiesta d’aiuto,
gridando come tutte le mie forze affinché venisse qualcuno in mio
soccorso. Ed ecco che giunse l’incubo: vidi la mia amata, il suo
sguardo vitreo come l’ultima volta che la lasciai, il colorito
delle sue gote di un bianco cadaverico, le sue mani gelide, come
uscite direttamente dalla più fredda delle tombe, che mi alzavano
con estrema facilità mentre mi riponevano su una sedia a rotelle.
L'Automa, surrogato di Maria |
Era un abominio, un abominio tale da instillare un pianto disperato,
il pianto di una perdita ancora più atroce della morte. Sapevo che
la Creatura era lì, sapevo che mi stava spiando, divertendosi di
come era riuscita a farmi disperare, di come mi aveva ridotto, un
paraplegico incapace di combattere. Uscii fuori dall’officina e
vidi il cielo illuminato dalla luna; la luce di quell’astro così
finto sembrava potente quanto quella del sole, anche se era incapace
di diradare la nebbia intorno al luogo in cui mi trovavo. La nebbia
avvolgeva qualsiasi cosa che un tempo reputavo familiare: i gradini
che portavano a cancello principale, gli spazzi di vegetazione che
tanto amavo curare, persino la lapide che avevo eretto per la mia
amata, per quanto la sua perfetta riproduzione mi stesse accanto a
monito per non smettere di disperarmi. E poi la vidi scendere
dall’astro: era lei, la deformità in carne ed ossa – per quanto
quel groviglio di pelle viscida e untuosa possa definirsi carne –
un osceno groviglio di arti e tentacoli, privo di volto e di
qualsiasi naturalezza, l’aborto vivente di ogni concezione di
ordine e disciplina, l’antitesi del disgusto verso la vita e
l’origine della pazzia. La scrutai, o quantomeno tentai di non
abbassare lo sguardo nei confronti di quell’orrore, mentre l’automa
che mi stava accanto, incarnazione parodistica di ciò che un tempo
amavo, quasi ipnotizzata da quell’essere sembrava comprenderlo. La
Creatura era immobile di fronte a noi senza emettere il benché
minimo suono, e quasi tutto i paesaggio intorno a noi sembrava muto,
privato di qualunque rumore; pure i miei pensieri tacevano, e per
quanto mi sforzassi di pensare non ci riuscivo, non tanto per
incapacità mia nel formulare una riflessione in quel momento quanto
per una forza esterna che mi impediva di emettere qualsiasi
ragionamento, una costrizione orrenda che ogni volta vivo quando si
presenta innanzi.
La Presenza della Luna |
Gli attimi sembravano infiniti fino a quando la
nebbia si alzò e lei svanì, dissolta nell’aria. Sembrava tutto
finito, e forse avrei avuto un attimo di tregua se l’essere che mi
stava accanto iniziò a parlare con quella voce che ero solito
ascoltare nei momenti più intimi e ricolmi di gioia, ma che adesso
udivo in un momento ricolmo solo di tragedia e nichilismo.
<<Dovrai
addestrare tanti cacciatori che tu stesso porterai nel nostro piano
per nutrire il mio signore>>. Dunque era la verità, ormai ero
schiavo di un Grande Essere, il mio tentativo di distruggerlo era
andato in fumo decretando la fine della mia gente. <<Perché un
giorno ne verrà uno che la ucciderà e tu dovrai fermarlo.>>.
Queste le sue ultime parole prima di piombare inanimata per terra.
Iniziai a tremare, il mio corpo si agitava privato del mio controllo,
o di quello che ne rimaneva. Prontamente mi alzai dalla sedia ed
iniziai a camminare, ma non sentivo niente, né avevo dato nessun
comando al mio corpo. <<Che cosa sei diventato Gherman?>>
dissi a me stesso, incredulo a quel che stava avvenendo. Una voce
rispose nella mia testa, una voce fuori posto.
<<La
Presenza della Luna, senza nome>>. Così caddi nell’ombra.
Omaggio di fine Tetralogia |
Custos Cinerium